Silvia Magnani

Chi insegna e chi cura

da | 30 Gennaio 2021 | Arte della cura, Articoli

Penso sia utile, per contribuire al dialogo sulla specificità di ruolo, un apporto autobiografico. Desidero testimoniare come il cammino di conoscenza non sia settoriale, così come quello di didattica. Il primo forma la persona, nelle sue molteplici caratteristiche, il secondo è la restituzione alla generazione successiva di ciò che ci ha resi ciò che siamo.

Gli anni 70

Nel 1979 arrivavo alla laurea in Medicina con una diploma in regia teatrale (avevo frequentato la scuola del Piccolo Teatro per tre anni a tempo pieno), un tirocinio come assistente alla regia in Scala e un’esperienza multiforme in campo artistico.

Durante l’università avevo conosciuto il teatro laboratorio di Grotowski, me ne ero innamorata e avevo seguito la loro didattica con determinazione da stalker. A 25 anni avevo già lavorato con Sigmund Molik, grande sperimentatore della voce, e con Ludwig Flaszen, drammaturgo e regista. Con il comitato di quartiere Isola avevamo ospitato Eugenio Barba, imparato da lui e dall’Odin Teatret la sperimentazione sul corpo nella ricerca dell’espressività. La nostra casa-comune ospitava in quegli anni le compagnie europee, fornendo alloggio a gruppi di naviganti dell’arte mentre io varcavo i mari più disparati, imparando da tutti: dai Colombaioni l’arte circense, da Hi Made Jmat la danza balinese.

Lo Yoga e lo Zen

Dai tempi dello studio di fisiologia mi ero appassionata alla neurologia e con Marco Margnelli, neurofisiologo, avevo studiato i fenomeni estatici e i cambiamenti dello stato di coscienza. Frequentavo un dojo Zen ogni mattina dalle 6 alle 7 e cercavo di capire come era fatto l’uomo attraverso le due uniche strade che conoscevo: l’arte e la medicina.

La mia tesi di laura “Fisica e metafisica del suono: analisi del Flauto Magico” era debitrice ad entrambe.

Da buona asmatica dai 16 anni seguivo corsi di yoga dal maestro Patrian, mite e intelligente persona, e praticavo il pranayama con devozione da discepola. La mia tesi di specialità in foniatria deve tutto a quelle esperienze: “La disciplina yogica nella riabilitazione della voce”. Siamo nel 1985.

Anche le mie risorse economiche dovevano molto allo yoga. Incinta del mio secondo genito, oppressa dal non trovare sostituzioni (non ero ritenuta affidabile come donna e madre di nuovo gravida) è proprio con Patrian che mi sono inventata un corso di yoga di preparazione al parto, forte della mia pancia, trasformando un handicap in una risorsa.

Mi avvicinavo intanto al mistero della maternità attraverso le letture di Laboyer (“Dalla luce il bambino”), attraverso la pratica della posizione della dea, per rinforzare il pavimento pelvico (inutile dire quanto serva nell’arte), attraverso il canto carnatico.

Tutto questo mi iniziava, io inconsapevole, allo studio e alla cura della voce.

Il mio interesse per l’Oriente mi introduceva a nuove conoscenze: i legami tra mente e corpo (che solo ora mi sono chiari con la teoria del cervello trino), le tecniche respiratorie, il valore della buona postura (la verticalità di vertice come risorsa per la vocalità la devo ad Angelo, il feroce maestro zen) e mi aiutava a comprendere le potenzialità del canto.

E’ stato durante un ritiro con un monaco tibetano che ho per la prima volta capito come cantare fosse una straordinaria modalità di partecipare alla vibrazione universale e come la mia voce restituisse, resa vibrante, l’energia che aveva assunto con la inspirazione. Senza sforzo, in armonia e unità.

Per capire devi trasmettere

Questa intuizione, congiunta all’esperienza teatrale e agli studi di medicina, mi hanno fatto nascere il desiderio di unificare in un metodo, non di canto né di preghiera, ma di cura, tutto ciò che avevo compreso. Da dove veniva questo metodo, che ho negli anni insegnato a centinaia di logopedisti? Dall’oriente, dallo yoga, dalla fisiologia, dal teatro, in un amalgama non scindibile. A cosa tendeva? A permettere la riconquista della propria voce naturale. L’ho insegnato a chiunque me lo chiedesse: ai miei allievi attori per nove anni, ai logopedisti, agli insegnanti di canto.

Nel teatro sono rimasta per tutta la mia vita. E’ stato negli anni nei quali ho insegnato educazione della voce alla Scuola di Teatro di Strehler che ho messo le basi di ciò che scoprivo in un libro, voluto dal mio Maestro Schindler, dedicato agli attori.

Due anni più tardi conoscevo Franco Fussi e iniziavo con lui quel sodalizio di pensiero che ci lega ormai da 30 primavere. Ma con lui il confronto è intellettuale, nella sfera noetica dell’umano. Il confronto con la carne, con la parte bruta del corpo lo devo ai miei pazienti e ai mie allievi.

Ad attori, logopedisti e cantanti ho trasmesso tutto ciò che ho capito, tutto ciò che ho sperimentato secondo il comandamento che ho nel cuore: insegna perché ti è stato insegnato, sii grato al tuo maestro cercando di farti maestro per altri.

Così ho passato la mia vita a dare ciò che ho ricevuto senza dividere il patrimonio che avevo avuto in categorie, al fine di veicolarne parte a uno e parte all’altro. Chi come logopedista, in tuta e calzettoni, ha seguito i miei corsi ha imparato a usare il vocal tract, a modificare la formante terza, a gestire l’appoggio e il sostegno, perché per riabilitare occorre saper fare. Chi è stato mio allievo come artista ha imparato a riconoscere la posizione laringea, a tonificare le guance e le labbra, a differenziare una fuga d’aria a carattere vorticoso da una non vorticosa, perché per insegnare bisogna conoscere.

I logopedisti che lavorano con me sulla voce artistica sanno usare la propria voce parlata e cantata ma non insegnano canto, si mettono piuttosto al suo servizio con il proprio corpo. Gli artisti ai quali mi appoggio per i miei pazienti e quelli che mi affidano i loro allievi non curano la malattia, anche se conoscono come la voce si ammala, quali farmaci sono maleficanti e quali beneficanti, come la voce si produce.

L’unicità dell’apparato che logopedisti e insegnanti di canto prendono in cura (e con cura intendo: avere a cuore, non terapia) inevitabilmente porta gli uni verso gli altri in una convergenza di scopo, il bene del soggetto, ma non di ruolo.