Rifletto a come sia cambiato nel tempo il mio modo di rapportarmi al paziente. Mentre da giovane medico desideravo arrivare a una diagnosi che fosse unitaria, cioè che chiarisse in senso deterministico la catena causale della sintomatologia presentata, ora tendo a percorrere strade diagnostiche che mi permettono di apprezzare la complessità.
La diagnosi unitaria ha in sé la presunzione di racchiudere in una dizione l’intera natura della malattia e, con questo, focalizza l’attenzione del clinico sulla sola realtà biologica, nello studio e cura della quale si esaurisce il compito del medico. La diagnosi complessa prende in considerazione la molteplicità dei sintomi, valorizzando, come indicatori dello stato attuale e addirittura della prognosi, anche i vissuti, le emozioni e gli stati d’animo del paziente.
Nel corso della mia vita professionale mi sono accorta che la preparazione datami dal percorso di laurea mi aveva reso un buon investigatore dei nessi causali che portano alterazioni d’organo a generare sintomi ma mi aveva lasciata del tutto sprovveduta ad affrontare la complessità dell’umano.
E’ ben diverso saper spiegare dal poter comprendere. Spiegare è infatti il risultato di una conoscenza mediata dall’intelligenza e maturata nello studio e nella pratica.
Comprendere è il frutto dell’esercizio quotidiano dello sforzo di arrivare all’altro attraverso un percorso che non può che partire dalla conoscenza di sé. Per questo comprendere è così difficile, perché prevede la sviluppo di uno sguardo interiore che, solo dopo essersi rivolto alla propria vita, si posa sul paziente, riconoscendolo partecipe dello stesso destino.