Silvia Magnani

Il paziente è paziente

Come Oliver Sacks nel suo libro “Su una gamba sola” mi sono ritrovata con una frattura al femore, costretta a letto e affidata quasi totalmente alle cure di estranei. E’ stata un’esperienza importante per me, sia dal punto di vista umano che professionale. Un’esperienza che mi ha fatto riflettere sul senso di impotenza che avverte il paziente per la sua stessa malattia e sulla obbligatoria mitezza alla quale è costretto.

L’impotenza genera ubbidienza

Nella vicenda che mi vede protagonista senso di impotenza, conseguente passività e rassegnazione si sono succeduti rapidamente.

L’esperienza di impotenza è stata immediata. Caduta a terra, ero del tutto impossibilitata a muovermi. Quelli che sono i naturali gesti del rimettersi in piedi mi erano impossibili. A questa consapevolezza della mia nullità fisica è seguita l’abdicazione al libero arbitrio. Mi sono sentita sollevare per le spalle e rimettere in piedi contro la mia volontà, prima ancora che capissi cosa mi fosse accaduto.

Si è angosciati nel vedere un corpo umano per terra, ridotto a una sagoma su un pavimento, è naturale che si tenda a riportarlo nelle coordinate spaziali tridimensionali della vita.

Ricondotta alla posizione verticale, diventata una specie di fenicottero appollaiato su una sola gamba, non potevo infine che ubbidire a quello che mi veniva consigliato: chiamare un’ambulanza.

Nell’impotenza più completa, incapace di decidere di me, mi sono quindi affidata ai soccorritori, che mi hanno trasportata, seduta, in ambulanza sino all’arrivo in ospedale, dove la mia passività è stata definitivamente coronata dalla messa al polso del braccialetto sanitario.

Ero un nome, cognome e numero, utile alla identificazione nel caso non avessi più potuto riferire quel “chi sono” che tante volte ha sorretto la mia identità.

Da seduta a orizzontale: rassegnazione

La passività indotta dalla carrozzina all’inizio è stata totale. Incapace di dirigerla, troppo spaventata per capire dove andare, sono stata parcheggiata nell’astanteria del pronto soccorso, inebetita dalla confusione che abita la testa di un soggetto appena traumatizzato. Di un malato si può fare ciò che si vuole.

Dai limiti della seduta obbligata, che mi concedeva comunque un certo panorama, sono stata presto ridotta alla immobilità della posizione sdraiata, incapace di spogliarmi, la volontà completamente annientata dal violento dolore che avvertivo. Il panorama in quella condizione si limitava al soffitto e ai corpi delle persone che si chinavano su di me senza rivolgermi il viso. Un malato chiede aiuto, con lo sguardo se non con la voce. Occorre sopportare di guardarlo negli occhi.

Il resto della procedura di accoglienza è stato interamente vissuto in una rassegnazione totale. Mi spostavano, preparavano un accesso venoso, mi davano farmaci, nella mia totale ignoranza del principio attivo. Infine mi prescrivevano lastre, mi portavano in radiologia.

Passività morale

E’ qui che la mia passività da fisica si è fatta morale. Trasparente agli occhi dei tecnici, ridotta al mio solo apparo osteoarticolare, l’unico che sembrava potesse interessarli, non sono mai stata chiamata per nome. Indicazioni brusche su posizione e immobilità, mentre loro discutevano delle proprie ferie e dei giorni di permesso.

Non credo un operatore sanitario si renda conto del senso di esclusione dal mondo che prova un malato, soprattutto un traumatizzato recente, che sino all’ora prima progettava i propri impegni con quella illusione di eternità che è la sola che ci permette di alzarci la mattina.

Non parlatemi del mondo di fuori – avrei voluto dire – ora per me si prospettano settimane di isolamento, di solitudine domestica.

I due giorni seguenti sono passati in una specie di torpore. Non essendoci posto in reparto ed essendo operativa solo una delle sale operatorie, sono stata parcheggiata in una astanteria più ampia, dotata di box individuali. Chiamare mi sembrava offensivo nei confronti degli altri malati più bisognosi di me. Gli infermieri erano figure evanescenti che mi passavano davanti dirette ad altri capezzali.

I due mondi

Solo una volta arrivata in reparto ho potuto conoscerli e subito mi sono resa conto che io e loro appartenevamo a due mondi separati: i malati e i sani. Ai malati si dà un conforto fisico, li si lava, li si cura ma con quella estraneità umana che rende difficile una qualsiasi forma di conoscenza. Se si deve curare un corpo è meglio non occuparsi dell’anima. Per altro anche a me ai tempi dell’università era stato insegnato così.

Cercare di inserirsi nel mondo dei sanitari per un malato è impossibile. Esordire al mattino con un “come sta?” è visto con sospetto. La domanda è a binario unico, è il malato che deve relazionare sul proprio stato, non l’infermiera che vedo zoppicare per il mal di schiena.

Solo la notte è concesso un rilassamento della regola. La stanchezza, le tenebre, permettono la confidenza e chi porta l’ultima dose di antidolorifico si ferma a parlare di sé, in quella intimità tra carcerati che la malattia da una parte e il turno dall’altra rendono possibile. Entrambi ci si trova esclusi dalla vita, chi per l’impossibilità ad alzarsi, chi per il sonno che dovrà concedersi durante il giorno, mentre gli altri lavorano e si incontrano.

La solidarietà col compagno di stanza è invece immediata. Ci si coalizza per richiedere un sonnifero: “le gocce rosa per favore”, come bambini che esigono una seconda fetta di dolce. Ci si fa coraggio all’arrivo del fisioterapista, figura temuta da tutti i degenti. Ci si dice cosa si è scelto per il pranzo. Si fanno progetti di incontri futuri, di alleanze perenni. Si ha l’impressione di essere compagni di viaggio, accomunati dalla meta: la guarigione.

E’ questa forse la cosa più commuovente di un reparto ospedaliero: la immediata amicizia che nasce con chi si trova nella tua stessa condizione, con un perfetto sconosciuto al quale inizi a raccontare del tuo incidente, per passare poi al chi sei, da dove veni e dove vai.

I massi erratici

I personaggi più anomali, veri vascelli fantasma nei corridoi, sono i medici di reparto. Entrano silenziosi nella stanza, a malapena salutano. Parlano tra loro di te, come tu fossi assente (ennesima passività del malato, considerato un cretino azzoppato) e se ne vanno come non avessero piedi ma cuscinetti d’aria sotto le scarpe. Solo uno specializzando si ferma a parlare.

Riconosco gli occhi famelici con cui mi guarda, sembra il lupo travestito da nonna. Lo sono stata anche io da ragazza. Un paziente tutto per lui. Può guardare, palpare, ispezionare un corpo che non ha il diritto di sottrarsi alla sua curiosità.

Spiragli di luce

Libertà in reparto non te ne concedono. Se sei azzoppato devi aspettare che qualcuno ti porti in bagno, devi tenera la pipì sino alla fine del giro. Piccoli gesti di ribellione sono inevitabili. Minacciare di togliersi il catetere da soli, di alzarsi dalla carrozzina per tornare a letto senza aiuto.

Eppure, questo mondo di infermieri, medici e os ha i suoi punti di debolezza, fenditure dalle quali traspare la vita, momenti di abbandono nostalgico dei quali all’improvviso entri a far parte, come quando l’anestesista parla dei suoi bimbi, mentre cerca l’accesso arterioso o il lettighiere che ti porta in sala ti dice che è il compleanno di suo figlio.

Sprazzi di luce nei quali ti infili per sentirti ancora partecipe del mondo, il mondo che chi ti accudisce abita, anche se indossa il camice, e dal quale tu, con il tuo pigiama, sei bandito.

Cosa ho imparato da questa esperienza?

Prima cosa. La gratitudine. Per persone sconosciute che ti raccolgono per strada e ti portano dove puoi essere curata e, mentre ti trasportano, ti sorridono, di confortano e non ti abbandonano, se non quando sono certi che sei nelle mani giuste.

Seconda cosa. La ammirazione per chi ti lava, ti mobilizza, ti cambia il pigiama come fosse una cosa normale. Per chi chiede in prestito un deodorante da un comodino estraneo, per darti quel po’ di profumo di cui hai bisogno il terzo giorno che passi senza una doccia, sudando come un animale. Atti naturali della cura di un corpo che non è il loro. Non facile.

Terza cosa. Il conforto che dà il contatto con colleghi che non ti considerano un numero ma una persona con diritti, primo tra tutti sapere cosa ti è accaduto, quale farmaco ti stanno dando, quale prognosi hai e, mentre ti informano, ti sorridono, consapevoli che domani le parti potrebbero invertirsi ed essere loro a presentarsi con quel biglietto da visita che suona “sono un medico, possiamo darci del tu?”

Quarta cosa. La consapevolezza che lo stesso trattamento di cui ritengo degno un collega: informazione, sincerità, accoglienza, è dovuto a tutti, sanitari e non.

Quinta cosa. L’impegno a presentarmi al paziente, ad accoglierlo e a salutarlo alla dimissione, come un ospite gradito e non come un problema superato.