Penso alla medicina delle evidenze e alla sua pretesa di oggettività.
Non si può essere osservatori “oggettivi” di un altro essere umano. Lo si può essere di un fenomeno naturale, di un oggetto appunto, non di una persona. Oggettività ha bisogno di cose misurabili, con strumenti incontestabili.
Guardando il malato siamo obbligati a cogliere tutti gli aspetti che la malattia può assumere e che solo la sensibilità di un altra persona (un altro soggetto) può percepire. Come il nostro paziente vive il proprio male? Quale ripercussioni ha sulla sua quotidianità e su quella della sua famiglia? Come si riflette sulla vita lavorativa e sociale?
Per ottenere risposte non basta l’anamnesi, occorre che essa sia guidata dall’empatia, da quell’entrare nella mente dell’altro a partire dalla nostra personale esperienza, che solo ci aiuta a comprendere, cioè a mettere dentro di noi, ciò che non ci appartiene.
Per curare, non solo per prescrivere farmaci, occorre competenza nell’umano e pazienza nell’ascolto. Altri mezzi per arrivare a capire la malattia in tutti i suoi significati non ne abbiamo.
La malattia nessuno la conosce meglio del malato stesso.
E se per descrivercela utilizza metafore e analogie, è perché non può fare altro. La malattia supera nella sua drammaticità i numeri e le immagini che la descrivono.