L’anno scorso, in piena pandemia, nessun dispositivo di protezione trovabile sul mercato, con la paura di ammalarmi e la necessità di lavorare (obbligo morale? testardaggine etica?), le due colleghe con le quali avevo aperto 30 anni prima lo studio mi comunicavano che gettavano la spugna. Consideratesi anziane, a rischio e stanche, smettevano di lavorare.
Non c’è solitudine maggiore di quando coloro che ti sono stati compagni di viaggio si scostano e si fermano ai margine della strada. Devi decidere se continuare, devi chiederti chi sei, cosa vuoi, perché lo vuoi.
Ero così orgogliosa dei mie spazi!
Sono stata sempre orgogliosa del mio studio, pieno di giocattoli, di libri, con un grande spazio nel quale i bimbi in attesa si incontravano. Avevo scelto tutto personalmente: dalla bambola con le trecce al ferro da stiro luminoso per il gioco simbolico, dalla frutta in gomma, ai pesciolini e alle palle tattili per i più piccoli. Avevo perfino dipinto di turchese il lettino dove dormiva l’orsacchiotto.
In una fine di primavera e in un’estate torrida, da sola, oppressa dalla fatica, ho riposto tutto in grandi scatoloni. Ho eliminato giochi e libri. Ho spostato le ottiche e lo strumentario da visita dal locale che avevo appositamente dedicato loro per dare a chi visitavo maggior conforto. Ho adibito quello spazio a deposito.
Lì ho messo i tappeti che coprivano il pavimento dello studio, dove i lattanti gattonavano e le mamme si sedevano a giocare con loro. Lì ho creato un ordine diverso, allineando guanti, disinfettanti, mascherine.
Lo studio, pur ancora accogliente, si è svuotato di ciò che identificava il mio modo di ricevere i pazienti: poltrone, giochi, libri, spazi caldi e rassicuranti.
Il cambiamento
La ineluttabilità, il cambiamento radicale, la solitudine. E’ in questi momenti che si è giustificati se ci si lascia andare. In questi momenti si abbandona tutto oppure si trova nuova energia.
La prima scelta, impulsiva e adolescenziale, è stata di ridipingere di rosa, il mio colore amato, gli spazi. Operazione inutile nella economia gestionale del lavoro, ma per me ricca di significati simbolici: rosa era la mia stanza di bambina. Poi, negli spazi ripuliti ho arredato le pareti.
Cosa rappresentava per me il momento che stavo vivendo? L’ineluttabile, il cambiamento, il coraggio del nuovo, l’accettazione del rischio..
Nulla mi è sembrato più iconico della pittura giapponese. Ho incorniciato delle stampe di Hokusai, essenziali e severe, interpreti del mio animo.
La cascata, con l’acqua che scende a valle, infrenabile, come la pandemia che ci travolgeva. Il ponte, con i contadini che, reggendo sulle spalle pesanti fardelli, passano da una riva all’altra. Il pescatore, ritto sulla scogliera, che getta la rete in mare per raccogliere il cibo del quale si nutrirà, a rischio di essere travolto dalle onde.
Questo era ciò che mi stava accadendo. Ne volevo testimonianza visibile. Non la fuga ma la consapevolezza. Non la rinuncia, il riposo, la fine ma il cammino, l’attraversamento del guado. Non il sottrarsi ma il confronto nella ricerca di nuove alleanze.
Il girasole, simbolo di rinascita
Traendo dalla consapevolezza non abbattimento ma energia, ho percorso tre vie.
Ho cercato tra i miei antichi allievi chi mi potesse sostenere nel rinnovarmi, la giovinezza è fiduciosa e generosa, avevo bisogno della sua vicinanza.
Ho conosciuto e ritrovato nuovi promettenti professionisti, anch’essi a una svolta della propria carriera.
Ho riavvicinato non solo come collaboratore ma come amico chi aveva deciso di restare.
Ne è nato un centro clinico, rinnovato profondamente dall’interno. Arrivata a una svolta nella mia vita, mentre anch’io, come i contadini della stampa, sto attraversando un ponte, mi trovo affiancata da persone che stimo, con le quali lavoro con un animo del tutto rinnovato.
A loro va la mia gratitudine.