Silvia Magnani

Se a essere curato è chi ha più chances

La prossima pubblicazione del piano pandemico, del quale è trapelata una bozza, obbliga a riflettere sulla possibilità che le cure, in situazione di estrema emergenza, vengano riservate solo a chi ha le maggiori possibilità di giovarsene.

Per non essere presi da uno spontaneo rifiuto della cosa, dovuto a decenni di medicina offerta a tutti secondo il criterio del “diritto alla cura”, occorre comprendere bene il principio di beneficialità, invocato da chi ha redatto il documento.

Beneficienza e beneficialità

E’ della medicina ippocratica la definizione del principio di beneficenza, cioè la proposta di una guida all’agire medico che abbia come primo e unico obiettivo il bene del malato, non soltanto in senso biologico ma in senso psichico e più largamente esistenziale. Tale principio si affianca a quello che lo precede di “non maleficenza” (primun non nuocere), in nome del quale il medico si rifiuta di somministrare veleni e di produrre un qualsiasi tipo di danno.

Nel caso di una discrepanza tra mezzi di cura, opportunità di accedere alle terapie e numero di malati il principio di benevolenza, che considera il soggetto nella sua singolarità di bisognoso di aiuto, si mutua nel principio di beneficialità, aperto alla considerazione della collettività della quale il singolo fa parte.

Si viene così a creare un confronto tra il bene del malato, nella unicità di paziente, e il bene della società. La valutazione alla quale si è chiamati deve quindi considerare due aspetti.

  1. La relazione tra benefici per il malato tratti dalla cura e costi della cura per la società, argomento dal quale non ci si può sottrarre, essendo le risorse sempre limitate.
  2. Il possibile beneficio per la società apportato dalla sopravvivenza di quel singolo paziente.

I costi della cura

Il principio di beneficialità è un principio da prendere in considerazione quando l’economia di un paese non può sostenere per tutta la popolazione i costi della cura o quando l’accesso alle cure, anche economicamente affrontabile dal singolo, è limitato dalla stessa struttura sanitaria (posti letto, disponibilità di farmaci, capacità di accoglienza in degenza specializzata).

La pandemia nei prossimi mesi rischia di metterci (ma già lo ha fatto) di fronte alla drammaticità della scelta di chi curare, su chi investire.

La bozza che sta circolando si rifà a questo principio etico ma dimentica che il principio stesso chiama in causa altri problemi morali che, nella visione organicista adottata, sono dimenticati.

La proposta è infatti strettamente biomedica (modalità ingegnosa per svicolare dai dilemmi): verrà privilegiato nella cura chi ha più possibilità di cavarsela, quindi i soggetti giovani, non patologici. Verranno esclusi dalle terapie i soggetti anziani, i malati e i fragili.

A prescindere dalla questione (anch’essa morale) di definire, pur obbedendo a tale principio, le età barriera e i parametri di esclusione (un cardiopatico vale meno di un epatopatico?), rimane la scotomizzazione di altri criteri di scelta, sacrificati in nome dell’anonimo e immediatamente disponibile criterio biologico. Ne cito due, solo per stimolare la riflessione.

Il criterio del merito. Non è forse da premiare e proteggere chi si è battuto per il bene collettivo, ad esempio un medico che si è ammalto sul campo, piuttosto che un soggetto che ha agito con incuria, divenendo a sua volta diffusore di contagio?

Il criterio di utilità. Data la dimensione sociale del principio di beneficialità, non è applicabile nella scelta un criterio simile a quello in uso in campo assicurativo, il “capitale umano”, come viene detto. Non è da privilegiare il padre di una numerosa famiglia monoreddito rispetto a un minore?

La riflessione rischia di farci perdere la testa, raggiunge infatti la radice del valore della vita. Dobbiamo solo sperare di non arrivare a questo punto, perché in ogni caso sperimenteremmo l’impossibilità della giustizia