Silvia Magnani

Mendel al cimitero

Nella mia prima infanzia la passeggiata dei pomeriggi d’estate era verso est, al cimitero. Lì, da una certa età, che è poi l’età nella quale si inizia ad avere veri lutti, le donne del paese vanno ogni giorno per controllare che “tutto sia in ordine” e che le tombe si presentino “come si deve” agli occhi di un possibile pellegrino che voglia conoscere gli abitanti del luogo non dai loro discorsi e dalle loro opere ma dal rispetto col quale trattano gli avi. Lì andavo ogni giorno per mano alla zia.

Che anche i bambini possano morire l’ho imparato molto presto, percorrendo lo stretto vialetto, parallelo al muro che dà a nord, lungo il quale erano allineate le piccole tombe dei nati morti e dei bambini venuti alla luce vivi ma incapaci di restarci per un tempo sufficiente a renderli degni di una vera sepoltura, nei viali principali. Era impossibile non passarci, perché il nostro giro di ispezione era sempre in senso antiorario e il viale dei bambini si trovava poco prima dell’uscita. Ogni volta che passavamo di lì mi fermavo, incapace di fare domande, a guardare quei visetti incorniciati dalle cuffie da battesimo, vegliati da angioletti e colombe di gesso. Che bambini più piccoli di me fossero morti mi sembrava incredibile, ma un po’ alla volta l’assuefazione alla loro vista, il passaggio obbligato a ogni periplo me li avevano resi amici, persone di famiglia da passare a salutare per consolarle del dover rimanere nelle loro piccole bare mentre io, superato il cancello, me ne potevo andare a scorrazzare per la strada di campagna.

In quel cimitero sono tornata giorni fa, incuriosita dai lavori di sistemazione ai quali l’amministrazione comunale l’ha sottoposto. Vado raramente a trovare i morti, conservo in loro presenza lo stesso smarrimento che provavo da bambina e preferisco ricordarli attraverso gli oggetti che sono loro appartenuti e coi quali ho arredato la mia casa.

Le dimensioni sono quasi raddoppiate e il muro di cinta è stato abbattuto per far posto a decine di nuovi ospiti, segno che nel paese, piccolo e senza storia, ancora ci si ostina a vivere. I cimiteri sono l’impronta fedele dei luoghi nei quali sono costruiti. Ne conservano le gerarchie sociali, ne testimoniano gli amori e i disamori, sono l’impronta che la vita lascia al suo passaggio imprimendosi su quella carta carbone che è la morte

La tomba dei miei genitori, prima ai limiti ovest del cimitero, è ora quasi al centro. Non mi ci fermo, è probabile che, per facilità ed economia di scelta, anche io vi sarò sepolta. Lo scavo sotto il marmo rosa è molto profondo e non ci si deve arrabattare per trovare una sistemazione alternativa. Mi sento sdoppiare a stazionarci davanti. Io viva e io morta, io che mi guardo nello specchio e mi compiango.

Preferisco cercare quella che era la meta dei pellegrinaggi della zia: la tomba dei suoi nonni. Il marmo verde, che conosco così bene e che staziona, col suo bel colore marino, indelebilmente nei miei ricordi, sorregge le foto dei genitori della sua mamma. Che strano, ora che ho l’età della morta sulla destra, mi accorgo di somigliarle. La fronte troppo rotonda di lei, sotto i capelli raccolti, è la stessa che vedo ogni mattina pettinandomi. Una fronte che da ragazza non avevo e che, ora che ci penso, è la stessa di mia madre. Anche lo sguardo, deciso, autoritario, è lo stesso della mamma. Mi guarda, con lo stessa severità con cui guardava il fotografo. Per fortuna il bisnonno mi sorride da sinistra, col suo viso intelligente e buono. Quella bontà gratuita di uomo operoso e tenace so che ora è la forza del mio figlio più giovane.

Proseguo, decisa a rendere una saluto a tutti. Per la prima volta sono colpita dalla somiglianza tra la mia prozia e uno dei sui figli, la cui foto è fissata accanto a quella di lei. Somiglianza che ero incapace di notare tra i vivi e che, ora torno alla tomba dei bisnonni a controllare, è direttamente derivata da una signora, viso tondo e schiacciato, della quale il mio avo era il primogenito. Anche il marito della prozia, nella foto accanto a lei, grande cuoco e orologiaio, mi pare ora identico a uno dei miei cugini, figlio del fratello. Non solo le facce, coi loro nasi, le fronti, gli occhi si sono intrecciati nella generazione per arrivare a oggi ma anche le abilità in questa mia normale famiglia. Cuoca provetta io, abilissimo con le mani lui.

La tomba della nonna non è a terra. Lei riposa nell’ossario, accanto al marito e ai genitori di lui. Con occhi nuovi guardo il viso del nonno. Lui non viene da questa Brianza di filande e coltellerie. Torino e il Piemonte si sono innestati nella mia stirpe con questo matrimonio tra una paesana e un villeggiante . Che viso delicato, che occhi grandi ha. Una gentilezza quasi femminea traspare dai suoi lineamenti. Peccato non sia filtrata attraverso le figlie per arrivare a me. Ma le sue mani, lunghe, affilate, dalle dita un po’ storte sono le mie e le rivedo ogni giorno in tutti e tre i miei figli. Lì, accanto ai suoi genitori, c’è anche la zia, guida di me bambina nel villaggio dei morti. L’ho portata io in quel cimitero, dopo la cremazione. Una piccola urna che mi sono tenuta stretta a ogni fermata della macchina e che è scesa con me per seguirmi al bar, dal fioraio, dal giornalaio prima di giungere qui. Paura che me la rubassero, quella zia, così preziosa da tenermela stretta come una borsetta. Quella zia della quale ho le belle gambe e il carattere autonomo e testardo.

Penso alla genetica, al silenzioso passaggio dei caratteri da una generazione all’altra. Alla memoria biologica che mi unisce a questi morti e che li fa continuare in me. Alle competenze e incompetenze da loro ereditate e che devo accettare, come la fronte alta, le mani lunghe, il grande naso.