Silvia Magnani

Il sasso nel vento

Questo il fatto raccontato da una mia cara allieva.
Un bimbo di pochi anni, che vive da poco con la famiglia affidataria, dopo anni di abbandono, ancora dice poche parole.
Da qualche tempo porta con sé un sasso, come compagno.
 
All’ingresso nello studio logopedico la mamma chiede di non tenerlo tra le mani e di lasciarlo a lei.
Il bimbo acconsente ma vuole un fazzoletto, lo avvolge con cura e lo deposita nella mano della donna dicendo “sasso, freddo”
Questa che è una scena per me estremamente toccante, mi riporta al deserto, alla civiltà ebraica e ai popoli della sabbia.
La frase di Koelet, spesso tradotta in “vanità, vanità, tutto è vanità” vede la sua esatta traduzione in “vento, vento, andarsene col vento”.
Per chi vive tra le dune il paesaggio è mutevole, il vento forma e cancella i contorni dell’orizzonte, nulla è stabile.
Ma un sasso, nel suo peso e nella sua staticità è ciò che resta sul posto, inamovibile segnale, testimone di un fatto. Non per altra ragione un sasso veniva posto dai popoli erranti su una sepoltura per segnarne l’ubicazione e ancora sassi si depositano sulle tombe.
Il bimbo sceglie il sasso come amico, lo anima, se ne occupa, gli attribuisce la capacità di sentire e di soffrire, il freddo, appunto. E lo affida solo dopo averlo coperto. E’ in mani sicure.
La metafora è struggente. Trovare un luogo dove restare, senza vento a ridisegnargli la vita contro la sua volontà. Fermarsi e coprirsi, per non avere più freddo.