Silvia Magnani

Il mio amico Marcel

Da quando sono adolescente ho nel cuore due autori francesi: Baudelaire e Proust. Li ho conosciuti al liceo, nel corso di lingua francese, e ho da subito sentito per loro un’attrazione fatale. Naturale avere cercato di entrare nella loro intimità, come si fa con chi ci affascina nella vita quotidiana.

Ma, mentre per il primo la conoscenza è stata progressiva e difficile, mediata dalle lettere alla madre, testo a suo tempo introvabile in lingua, e dal racconto “Charles Baudelaire, intime, le poete vierge” del suo amico Gautier, per il secondo l’entrare nei recessi dell’anima non solo è stato semplice ma addirittura favorito, voluto dall’autore stesso.

Quel suo parlare in prima persona, quella sua rammemorazione fanno pensare, nell’ostinazione notturna dello scrivere, a una precisa volontà di darsi al lettore, creando con lui una di quelle amicizie fondate sulla conoscenza reciproca delle debolezze e difetti.

È così che dall’età di 17 anni sono diventata amica di Marcel, un’amicizia che dura ancora ora e che ho difeso con passione da tutti gli altri incontri fatti lungo la strada di appassionato lettore.

La prima volta

La prima volta che ho aperto la Ricerca è stata estraendone a fatica il primo volume da un cofanetto che li conteneva tutti. Da allora una copia è sempre stata nelle case in cui ho abitato e abito tuttora. Non posso pensare di averne bisogno e non trovarla. La casa del mare dei miei genitori, quella di campagna, eredità dei nonni, la casa di Venezia e infine la mia vera casa, quella Milanese.

L’inizio della mia amicizia con Marcel è stato problematico. La lettura di “Combrée” e “Dalla parte di Swann” è stata frammentata. L’esame di maturità, i primi anni di università l’anno interrotta e rimandata, sino a farmene dimenticare dei pezzi, così che, una volta sposata e madre, ho dovuto riprenderla, con calma e meticolosa puntualità, per averne una piena conoscenza. Mi ci sono volute due letture in italiano e una in francese per poter affermare di penetrarne l’incanto. Da allora io e Marcel non ci siamo mai lasciati, perché, dagli anni 90 in poi, non ho mai finito di leggere la sua opera. Periodicamente ne affronto per l’ennesima volta il primo libro, proseguo con il secondo, col terzo, sino a concluderla, poi riprendo dal primo, alternando la traduzione al testo originale.

Coinvolgere chi amo

L’approdo alla meravigliosa e fedele traduzione di Raboni è stato lo stimolo che mi ha spinto a chiedere a Nino, mio marito, sensibile lettore ma discontinuo, di affrontare a sua volta l’impresa. E così nell’intimo cerchio dell’amicizia presto siamo stati in tre: io, Nino e Marcel.

Il suo narrare così intrecciato, tanto da esserne intriso, con la sua vicenda personale ha avvicinato anche lui al malaticcio bambino ricercatore della bellezza, facendogli apprezzare ogni aspetto del carattere. Con Marcel, diventato giovinetto, insieme abbiamo riso dell’insulso dottor Cottard e della sua intrigante consorte. Al suo fianco abbiamo camminato sulla spiaggia di  Balbec, con lui abbiamo sperato nella futura carriera letteraria tanto osteggiata dal padre, per lui abbiamo gioito dell’eredità di zia Léonie.

Le strade dell’anima

Ripenso con sincera tenerezza a me e a Nino, in giro per la Francia, alla ricerca del tempo perduto di Marcel.

Eccoci a Illiers-Combray, in pellegrinaggio alla casa dove Proust passava l’estate. Siamo nella cucina di Céleste e poi seduti sulle scale dove, bambino, in lacrime aspettava il bacio della mamma. Ci rivedo intimiditi tra i banchi della chiesa, dove, ferma a guardarne le vetrate, pensavo a Genoveffa di Brabante, confusa nella mia testa con i duchi di Guermantes, per sempre roteante nella lanterna magica della fanciullezza. Rido pensando a noi due fermi sulla strada per Mesèglise, la macchina abbandonata in uno spiazzo, a cercare con gli occhi il campanile davanti al quale il nostro amico aveva capito di essere votato allo scrivere. Infine a Cabourg, a camminare sulla spiaggia, rievocando l’estate delle fanciulle in fiore.

L’emozione più grande però l’abbiamo provata a Parigi, al museo Carnavalet, dove è conservata la camera da letto di Marcel. Ci siamo entrati in punta di piedi, quasi avessimo paura di svegliarlo. Il letto, largo e solido, ci è apparso con la stessa solennità di un monumento funebre e insieme di una statua equestre: onore e rimpianto per quella vita abbandonata e dedicata, per quel che ne restava, a ricercarne il senso nottetempo.

E’ impossibile avvicinarsi al letto di Proust e non pensare alla frenetica correzione delle bozze de “Il tempo ritrovato”, già malato, già prossimo a morire di quella malattia, l’ascesso polmonare, che non avrebbe contratto se, in una sera di inverno, non avesse ceduto la sua carrozza, per galanteria, a una signora, restandosene poi a gelare nell’attesa del prossimo vetturino. Fine dolce e tragica che tanto richiama i versi di Rembaud: Oisive jeunesse À tout asservie, Par délicatesse J’ai perdu ma vie.

Non personaggi ma persone

Negli anni, fatti di infinite riletture, vuoi di un capitolo, vuoi di un paragrafo, nella solitudine della stanza o a voce alta, perché l’altro ascoltasse, Nino e io non solo siamo entrati nella vita di Proust ma abbiamo incontrato, nei personaggi da lui così finemente descritti, persone reali, delle quali, per sentito dire o per esperienza diretta si conoscono le abitudini, le debolezze e si prevedono le reazioni.

Con Nino ho esecrato Madame Verdurin, riso della disarmante stupidità delle zie. Insieme abbiamo cercato di spiegarci perché Swan abbia sposato Odette senza esserne più innamorato (l’ho intuito io, dopo molti anni di ipotesi), cercando di immaginarci quale fosse la pétite frase che legava entrambi, dispiacendoci per la sorte Vinteuil, il suo sconosciuto autore.

Molti anni di letture hanno creato tra me e  Nino una complicità come accade in certi circoli, dove tutti conoscono tutti. Di Elstir, l’ho incontrato un’estate, leggendo nella casa di campagna, abbiamo rimpianto il ritratto fatto alla duchessa di Guermantes e non abbastanza apprezzato. Di Oriane tante volte abbiamo parlato con asprezza, ripetendoci a memoria la descrizione fatta della sua entrata, fintamente modesta, a un concerto. Insieme ci siamo dispiaciuti della sua noncuranza verso Swann malato, trascurato nel suo ultimo saluto, per correre a cambiare la scarpette da sera, esecrate dal marito.

Leggere e rileggere

La lettura dell’opera completa è stata spigolosa per me. I primi tre volumi sono volati, se volati si può dire dell’aver dedicato loro un decennio. “La Prigioniera” è stata un supplizio. Il libro mi ha accompagnato a un congresso, quindici anni fa, durante il quale mi ero imposta di finirlo, per poi metterlo in valigia e riportarlo intonso a casa, sino a che, arrivata un’estate torrida, il caldo mi ha visto letteralmente cadere nell’atmosfera malata della camera da letto di Albertine, sentendomi sulla pelle le stoffe tessute da Fortuny, del quale conoscevo bene la produzione, per aver lavorato nella sua casa museo da ragazza.

A “Il Tempo ritrovato” ci sono arrivata dopo i cinquant’anni, ed è stato un bene perché prima non lo avrei compreso. Letto in italiano, poi in francese, poi riletto nella mia lingua in una vacanza in montagna, è stato per me il testo più significativo, quello che mi porterei sull’isola deserta.

Forse ora sui trampoli del tempo mi sto arrampicando io, se  il duca di Guermantes è così gentile da cedermeli, perché, in questi anni in cui mi accorgo che la vita è trascorsa, so che ciò che è stato non è ricordo ma vita vera qui presente, come quella di Marcel, il mio amico.