Silvia Magnani

Capire il pianto dei lattanti

E’ molto difficile comprendere le ragioni del pianto di un lattante. Solitamente ci attiviamo prendendo atto del contesto. Non mangia da tre ore: avrà fame, lo attacco al seno; non lo cambio da quando si è svegliato dalla nanna: sarà bagnato.
 
Pianti di fame, di disagio, e anche pianti che solo chiedono vicinanza hanno tra loro confini sfumati e impariamo a rispondere alla richiesta del nostro piccolo solo vedendo quale azione lo consola.
 
Ma il pianto del bambino è così misterioso?
 
Gli studi sul pianto dei neonati hanno individuato in esso due tipi di informazioni.
Il primo tipo di informazione, che possiamo chiamare di tipo statico, trasporta l’identità vocale del bimbo che sta piangendo. Lunghezza cordale, estensione del vocal tract, volume delle cavità di risonanza, capacità polmonare producono infatti un’impronta vocale caratteristica, propria di ciascun lattante. Prova ne è che i genitori sono in grado di riconoscere il pianto del loro bambino tra i tanti in una nursery o in un reparto di neonatologia. La voce e il pianto che ne è una modalità sono quindi paragonabili a un’impronta: chiarificano il “chi è”.
 
Il secondo tipo, che chiamiamo di tipo dinamico, ci informa invece sullo stato del bambino e sul suo livello di sofferenza (non su cosa lo metta a disagio ma su quanto è a disagio). Ciò che cambia è infatti quella che, prendendo a prestito una terminologia anglofona, è la “acoustic roughness” e che, in senso percettivo, possiamo definire come il grado di spiacevolezza all’ascolto.
Il pianto correlato a un disagio modico è armonico, le corde vocali vibrano con regolarità.
Il pianto di dolore, principalmente per l’aumento della pressione dell’aria in uscita e per la costrizione del vocal tract sovraglottico, non è soltanto più vigoroso ma produce fenomeni non lineari che si traducono in salti di frequenza fondamentale, improvvisi passaggi a note iperacute, presenza di rumore aggiunto per perturbazione delle regolarità del segnale glottico.
 
Capire il pianto non è frutto di un istinto ma di una abitudine alla sua interpretazione data dalla convivenza e dal tempo trascorso col piccolo.