Silvia Magnani

Dopo la fine del mondo. Lettera ai miei pazienti

da | 02 Luglio 2020 | Articoli, Lettere

Posso datare con precisione la fine del mondo, il mio mondo. Era il 22 febbraio 2020. Che ci fosse l’epidemia in Cina, lo sapevamo tutti. Che ci fosse qualche caso in Italia, anche. Ma il 22 abbiamo tutte noi, che lavoriamo insieme, avuto la percezione che la malattia fosse qui, nel nostro cortile

Che fosse il 22 ne sono certa. Il mio nipotino era stato appena dimesso dalla terapia intensiva, fragile come un uccellino. Il giorno dopo dovevo fare lezione a venti persone che venivano da ogni parte d’Italia.

E’ in quel giorno che ho chiuso lo studio. Ho telefonato ai pazienti (avevo l’agenda piena per le tre settimane a venire), ho scritto una e-mail agli allievi, ho tracciato una riga su tutti gli impegni.

Il giorno 8 marzo anche tutti i miei collaboratori smettevano di lavorare. Chiuso il nostro servizio di logopedia, di psicologia, di neuropsichiatria, di osteopatia. Tutto chiuso, fermo, in attesa….

E come tutti, come voi, in attesa, senza lavoro, senza reddito, senza risorse siamo rimasti.

No, non è del tutto vero, io no. Io ho continuato a lavorare, per poche ore settimanali, nel servizio pubblico. Due imperativi categorici erano scolpiti nella mia mente: chiudere l’ambulatorio privato perché non sapevo come proteggervi. Continuare a visitare nel servizio pubblico, dove l’ente avrebbe potuto proteggere me e chi visitavo.

E l’ente ci ha difeso, riservando l’accesso in visita alle sole urgenze, permettendoci di telefonare agli anziani in lista, chiedendo loro di rimanere a casa, istituendo il triage d’ingresso.

Ma i DPI non c’erano. Le mascherine erano centellinate, e solo chirurgiche, le visiere un miraggio. Certo non sono un medico eroe, quello di frontiera che si batte in corsia contro il virus, ma sono un ORL, a rischio più degli altri. Ho avuto paura di ammalarmi.

E’ iniziata così per me la ricerca di tutto ciò che poteva essere usato come barriera protettiva, per visitare in Asl e per poter riaprire il mio ambulatorio in sicurezza. Lo cercavo su internet, lo compravo a costi quadruplicati, trattavo i pacchi in arrivo come tesori. Sono stati mesi di carestia.

Ho aspettato sessanta giorni il termometro, le cuffie protettive, le visiere. Tre mesi le FFP2, i guanti, le soprascarpe. Quattro confezioni di guanti sono state ordinate e mai consegnate, probabilmente rubate nel tragitto. Le visiere protettive sono state due volte bloccate alle frontiere (tutto cinese, non si reperiva altro). Italiano, ma al costo di 8 euro al litro l’alcol. Introvabili Amuchina e gel igienizzanti. Una giungla di approfittatori, come sempre in tempi di guerra.

Tutto il tempo che non passavo in Asl, una settimana meno 4 ore, l’ho passato a casa, senza mai uscire, neppure per la spesa. Sono un paziente fragile, ho 66 anni e sono cardiopatica. Duecento metri di camminata ogni 7 giorni. Nel frattempo pensavo, mi chiedevo: perché faccio questo lavoro? Conviene correre rischi?

E intanto il lockdown, che ho vissuto come voi, nella paura, nella insofferenza, nella solitudine del giorno.

La sera mi ritrovavo coi miei figli. Ma la nostra non è una famiglia a basso rischio. Quattro di noi sono medici, tre ORL Attorno al tavolo commentavamo il numero dei decessi, ascoltavamo il mio primogenito raccontare delle notti in ospedale, delle telefonate ai figli che era obbligato a fare per comunicare la morte di un padre o di una madre, della roulette russa per ammettere in terapia intensiva il solo paziente possibile tra i tanti che ne avevano bisogno.

E’ così che una famiglia di medici si raccoglie in tempo di peste, spaventata, preoccupata di infettarsi a vicenda, di far ammalare il piccolino, già tanto provato. Certo, come i divi dello spettacolo fotografati nelle loro case, abbiamo cucinato, pulito, imbiancato mentre due nostri colleghi ORL morivano, un altro subiva un ictus che lo lascerà invalido per la vita che gli rimane, gente della mia età non ce la faceva, due genitori di miei allievi passavano in poche ore dalla tosse al coma.

Ora parlo a lei, che è venuta in visita nel mio studio convinta che l’epidemia fosse una montatura, a lei che non ha avuto amici, colleghi morti, che non ha avuto paura, come me, di ammalarsi, senza meritarselo mentre faceva il proprio lavoro di cura, sì a lei. Mi creda, tutto questo è successo.

E parlo a lei, che è entrata senza mascherina e si è adombrata perché le ho chiesto di mettersela. Che, quando le ho offerto il gel per le mani (lo sa che il triage è obbligatorio?) mi ha assicurato che “lo aveva appena usato”, a lei che ha continuato a parlarmi per tutta la visita a mascherina abbassata, che mi è stata vicina a meno di un metro per tutto il tempo, che ho dovuto distanziare con la mano. Lo sa che potrebbe essere positiva e non avere sintomi ma far ammalare chi ha vicino? Mentre io mi prendo cura di lei, perché lei non si prende cura di me? Non mi rispetta? Io non sono autoritaria, non oso trattarla male. Pensa, visto che viene in visita privata, le sia permesso disattendere le regole?

Un medico è una persona fragile quanto lei, timorosa, prudente, ha una famiglia che sta mantenendo, difendendo, amando. Ma soprattutto la sta curando, per lavoro ma anche per solidarietà, dedizione, nel riconoscimento di far parte di uno stesso destino, di un uguale mondo che solo col suo aiuto può ricominciare a rassomigliare a se stesso.