Silvia Magnani

Clinico per professione

Spesso ci dimentichiamo che la parola Clinica deriva dal verbo greco κλίνω (clino), atto del chinarsi sopra. Clinico è quel medico che si china sopra un soggetto che in quel momento è impossibilitato ad alzarsi

Esercitare la clinica significa quindi  principalmente inclinarsi sopra il malato, cioè rivolgersi a lui “abbassandosi”

Come tutti i verbi di moto  κλίνω prevede la possibilità di due prospettive: quella del medico che va verso, e quella del malato che vede il medico venire verso.

Due accezioni, due relazioni

Proprio nella scelta dell’analizzatore usato possiamo distinguere due diverse modalità di relazione.

Nella accezione di andare verso l’oggetto attenzionale è il medico che si china. Egli dall’alto del proprio stato di salute (i sani stanno per definizione in piedi) si volge verso l’allettato, sottolineando una  condizione di superiorità (fisica, intellettuale, di ruolo)

Nella accezione del venire verso è il malato, dalla propria situazione di impotenza, che vede entrare nel territorio di malattia il medico, facendo posto, nella propria sofferenza (che conosce perfettamente), alla competenza di chi ne sa più di lui sulle sue cause e sulla sua terapia.

Nel quotidiano della professione di cura ci troviamo a transire da una situazione all’altra, assumendo talvolta l’atteggiamento di colui che scende verso il bisognoso,  talvolta quello di colui che viene accolto.

 

Una ulteriore possibilità

Ma c’è una terza visione della clinica molto più interessante.  Chinarsi per mettersi alla stesso livello del malato, per guardarlo nella prospettiva non dell’up-down ma dello sguardo condiviso.

In questo atteggiamento non è solo il segno (l’obiettività” patologica) che interessa ma il malato come persona, portatore di un racconto di malattia.

E’ questa situazione che può aprire  un orizzonte di senso oltre che sulla patologia  sulla nostra personale  vicenda umana.

 

Si cambia

Da giovane medico, perfettamente sana, cercavo sul corpo del malato le prove dei sintomi lamentati. Come un investigatore ricostruivo la catena di causa ed effetto per arrivare a quello che credevo fosse l’unico scopo del mio intervento: la diagnosi e, se potevo, la terapia.

In quel periodo la vicenda del paziente mi pareva qualcosa del tutto personale che nulla aveva a che fare con me e con la mia vita.

Certo vedere bimbi malati mi faceva sentire fortunata ad avere figli sani, assistere persone della mia stessa età con prognosi infauste mi faceva ricercare su di me, a scopo di rassicurazione,  le prove di una perfetta salute, ma nulla di più.

Con gli anni, con l’esperienza della malattia, con l’invecchiamento del mio corpo che ho sentito esposto come tutti i corpi all’insulto del tempo, mi sono resa conto che la mia relazione col paziente inevitabilmente cambiava con me.

La diagnosi non era più il banco di prova della mia intelligenza, ma il naturale derivato di conoscenza ed esperienza, qualcosa che agivo per spirito di servizio, considerandola per quello che è: risposta a una richiesta.

Nella visita e nella cura non era più su me che volevo conferme. Ciò che ricercavo era riconoscere me e il paziente come individui  partecipi di una vita sensata.

Chinarmi verso il malato ha perso il senso dell’abbassarmi, del volgermi verso un corpo.

Sono diventata un “clinico che chiede”.

Mi chino per ridurre le distanze, per ascoltare, per sentire la voce.

Questo non nega la ricerca dei segni obiettivi, non nega il valore delle evidenze, semplicemente riposiziona me e il paziente sullo stesso piano: insieme cerchiamo di dare significato a ciò che accade.

Mi sono sempre accusata di non comprendere le persone. Per tutta la mia vita ho visto i comportamenti e le azioni della gente come espressioni alla superficie di qualcosa che nel profondo mi era inconoscibile.

Forse per questo ho letto tanto e amato appassionatamente il cinema. Solo attraverso le narrazioni qualcosa mi diviene  comprensibile.

Nell’ultima parte della mia vita professionale mi rendo conto che opero come medico con lo stesso atteggiamento di attesa che provo all’abbassarsi delle luci in sala e allo scorrere dei titoli di testa: che storia sto per conoscere? Cosa mi spiegherà dell’umano? Come renderà me  più nota a me stessa?