Silvia Magnani

Insegnare come luogo della inquietudine

Ci sono professioni che sono più di altre significative per la società.  Sono le professioni della cura. Ma cosa intendiamo con questa parola?

L’uso latino

Il termine viene a noi dal latino coera, successivamente cura.

In questa lingua il vocabolo veniva usato per esprimere osservazione attenta, vigilanza, preoccupazione ma anche inquietudine e ansia.

Lo ritroviamo in modo specifico in contesti relazionali caratterizzati da amicizia, amore e convivenza affettuosa, anche se poteva essere usato per indicare l’atteggiamento assunto nei confronti di beni personali e condizioni di vita garanti del benessere individuale.

Prima ancora quindi di significare una azione (la cura come noi la intendiamo) cura significava uno stato dell’animo, una emozione (ansia) o un’operazione cognitiva.  Le azioni (di accudimento, salvaguardia e protezione) ne erano quindi i derivati. La cura “si provava” e, avendola provata, si agiva di conseguenza.

 

Insegnare come luogo dell’inquietudine

Mi piace tornare a questa accezione del termine per riflettere su come nelle professioni che chiamiamo della cura (il medico, l’avvocato ma anche l’insegnante) alla radice di tutto ciò che viene fatto, sia questo prescrivere un farmaco, difendere in tribunale o far didattica in classe, debba esserci, oltre alla preparazione tecnica, una disposizione dell’animo che è appunto un misto di vigilanza, preoccupazione e inquietudine.

Nel prendersi cura degli allievi è infatti implicito un coinvolgimento, che può essere connotato anche da vissuti individuali penosi ai quali non ci si può sottrarre.

Se infatti vigilanza allude a quella capacità di prestare un’attenzione costante a chi si affida (che nulla ha a che fare col controllo quanto piuttosto con la salvaguardia di un bene), è ugualmente vero che nel fare didattica,  non possiamo risparmiarci la preoccupazione (sarà in grado di apprendere? cosa farà delle nozioni che gli ho trasmesso?) e soprattutto l’inquietudine (è giusta la mia ricerca? ciò che sto insegnando è adatto a lui? è questo che mi sta chiedendo? sto facendo abbastanza?).

Nella mia vita di insegnante l’inquietudine mi ha sempre accompagnata, anzi, dopo 30 anni di didattica, posso dire che essa è stata la mia guida e la mia ispiratrice. Ho insegnato per tacitarla, per trovare una uscita dignitosa ai mie dubbi e alle mie incertezze, per trovare una via di uscita a quella penosa sensazione di non fare abbastanza, non sapere abbastanza che mi ha sempre accompagnato.

Quel non sentirmi mai abbastanza adeguata al compito che mi proponevo, quella continua ricerca del modo giusto per spiegare (per poi dirmi che ce ne era uno migliore e più semplice), quell’arrivare a una meta e sentirmi di nuovo ai blocchi di partenza hanno segnato e ancora segnano la mia attività.

Argomenti di didattica ce ne sono sempre, azioni di cura in senso quotidiano del termine sono sempre proponibili. Sarebbe tanto facile vivere di rimessa utilizzando ciò che altri hanno insegnato a noi, senza farci domande!

Ma insegnare è un’altra cosa, non è “fare e dire cose” ma avere dentro di noi la consapevolezza che prenderci cura dell’allievo è prenderci cura di noi, progredendo in quel cammino di conoscenza al quale siamo destinati, coniugando alla dimensione del sapere la dimensione degli affetti.

Questo cammino non è la trasmissione ad altri di ciò che hanno insegnato a noi, in una distanza giudicante,  ma è ascoltare le necessità e rispondere attraverso le nostre stesse domande, quelle appunto che l’inquietudine ci pone.