Silvia Magnani

Mamma, smetti di chiedermi “come si chiama”!

Esiste una grande differenza tra una lingua “d’affezione” e una lingua appresa in tempi successivi alla primissima infanzia. Quella che chiamiamo lingua madre non è solo un insieme di vocaboli, forme verbali, strutture sintattiche utilizzabili in una interazione comunicativa. La lingua madre è un mondo sonoro nel quale siamo immersi sin dall’utero e al quale siamo invitati a partecipare dai primi giorni di vita.

L’accezione “materna” data a questa lingua non sta a significare soltanto che è nella relazione con la mamma che essa viene appresa ma che materno è il suo modo di presentarsi  e materna la sua modalità di guidare il bimbo nell’appropriarsene, chiunque sia la persona che la propone.

La parola è luogo privilegiato del legame, come la nutrizione e l’accudimento fisico. In questo senso la lingua madre è lingua di affezione in quanto dotata di una duplice funzione: quella di partecipare attivamente alla cura (proponendosi come cura essa stessa), quello di veicolare insieme ai contenuti della comunicazione i contenuti affettivi di essa (in quanto luogo di accoglimento ed espressione del mondo degli affetti).

 

La voce e il linguaggio come cura e luogo della affezione

Curare qualcuno è occuparsi di lui, delle sue esigenze e accoglierne contemporaneamente le richieste, fornendo risposte adeguate. Il linguaggio affettivo della cura è quindi, prima ancora di essere una produzione, un mettersi in ascolto. Nel caso specifico questo ascolto si esprime nella ripresa dei suoni prodotti dal bambino, siano essi vocalizzazioni isolate, sonorità gutturali o stringhe melodiche.

E’ questa la testimonianza più immediata dell’interesse che abbiamo per lui.

Vocalizzando in risposta a nostra volta, non solo affermiamo che ciò che il bimbo produce ci interessa ma che lui stesso è per noi carico di un valore talmente grande da catturare la nostra attenzione e da guidare la nostra azione.

L’accoglimento della produzione è atto sommo di legittimazione del bambino come persona e del suo sforzo comunicativo.

Nella interazione quotidiana questo accoglimento si fa inevitabilmente “creativo”. Esso cioè, mentre raccoglie, rimodella e, nell’atto di riproporre la vocalizzazione, la riplasma avvicinando i suoni e la prosodia al target  della lingua utilizzata.

 

Quando il bambino parla poco

Se questa modalità di scambio avviene naturalmente nella interazione con un bimbo molto piccolo dal quale non ci si aspetta ancora una produzione formale, la sua messa in atto può essere molto più complessa quando il figlio, parlatore tardivo o con ritardo di linguaggio esplicito, ha raggiunto un’età nella quale la carenza nella espressione verbale è manifesta.

E’ qui che il linguaggio rischia di perdere la propria  funzione materna. La risposta del genitore a una incompetenza può essere la più diversa, da una drastica assenza di interazione (dovuta alla consapevolezza della propria  inadeguatezza a fornire una risposta sintonizzata alle capacità del figlio), all’utilizzo di un linguaggio troppo complesso, nella speranza di svolgere una funzione di stimolo alla espressione.

In una condizione del genere la funzione di cura decade. I due, posizionati a livelli di competenza linguistica troppo differenti, rischiano di ridurre le interazioni. Il bimbo perché non trova accoglienza alle proprie espressioni o riceve in risposta frasi che non riesce a utilizzare in modalità interattiva. Il genitore perché crede vanificato il proprio ruolo di educatore al linguaggio.

Da una modalità giocosa, affettiva di interazione la comunicazione linguistica diventa luogo privilegiato di espressione dell’ansia. E’ in questi casi che lo scambio si riduce alla formulazione di domande, finalizzate ad ottenere una risposta da parte del piccolo che testimoni la sua competenza tranquillizzando il genitore.

“come si chiama?”, “che colore è?”, “cosa è questo?”

Se questo tipo di relazione verbale, seppure agita in una modalità deviante, è ancora identificabile come forma della cura, un linguaggio così utilizzato cessa di essere luogo dell’affezione.

Occorre infatti ricordare che la seconda funzione della lingua materna è quella di educare alla espressione del “mondo degli affetti”, testimoniando  al piccolo che parlare è per prima cosa comunicare una intenzione e una emozione, pena il trasformare il linguaggio nella trasmissione di informazioni e nella verifica che tali informazioni siano recepite.

Non solo la funzione affettiva della lingua può essere svolta solo da chi parla nella propria lingua materna, ma i tratti melodici, il timing prosodico, si possono rendere solo se il parlante interagisce con soggetti ai quali è affettivamente legato in una situazione emotivamente significativa.

Rinunciare a questa funzione col proprio bimbo per fare della relazione una continua richiesta di comportamenti, una verifica di competenze o una esibizione di performance è un’occasione sprecata. L’interazione  si fa simile a un esame e la relazione assume un aspetto didattico molto lontano da quanto il piccolo si aspetta

Il bimbo che si vede costretto a interagire all’interno di una situazione richiestiva, continuamente sollecitato a fornire risposte, inizia a svalutare la propria espressione verbale spontanea. Con molta probabilità parlerà sempre meno, magari incrementando il vocabolario e aumentando il numero di “risposte esatte” a scapito della espressione di sé e delle proprie emozioni.